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2009 – 2018 Il genere “Chasing cars”, due cult movie a confronto Lineup del 1958 e Bullitt del 1968 Novembre 2018 |
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Il poliziesco d’azione americano cambia stile e introduce il
filone “Chasing cars” Se vi siete mai domandati se il film
“Bullitt” è pura originalità e creazione, forse Vi può incuriosire questo
breve articolo. Partiamo dall’inizio. Alcuni mesi fa decisi
di vedere un film diretto dal regista americano Don Siegel.
Al termine del film, volli controllare quando era stato girato e quali erano
state le pellicole successive (o
antecedenti) per capire se vi fossero stati altri suoi film da vedere,
oltre a quelli con Clint Eastwood i cui titoli sono leggenda (“L'uomo dalla cravatta di cuoio”,
“Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!” e “Fuga da Alcatraz”). Un titolo era indicato da molti siti come un
vero capolavoro del genere poliziesco d’azione. Il film in questione era
“Crimine silenzioso – Lineup” del 1958. È molto bello, innovativo per il suo tempo e
per le modalità con cui è stato girato. Qualcosa però di più particolare mi ha
colpito, cioè la strana somiglianza ad un’altra pellicola “cult” ma prodotta
dieci anni dopo: “Bullitt” (1968) di Peter Yates con il Re del cool, Steve
McQueen.
Il
cinema poliziesco incontra quello d’azione Don Siegel, nel
1958, ruppe quel binomio che vedeva il film poliziesco legato al genere
introspettivo (crimine – psiche del
crimine). Scardinò quella regola sostituendo nel connubio, la parte
psicologica, con pura azione fisica. Il film “Lineup”
iniziava con una scena violenta e inaspettata, con la morte di un poliziotto
e di un tassista; proseguiva introducendo il consumo di eroina, mostrando la
misera dimora di un eroinomane e caricando la scena con il dettaglio delle
siringhe da lui utilizzate. E questo era solo l’inizio del film! Gli attori non avevano dialoghi fluidi, il
taglio voluto di alcuni fotogrammi rendeva le scene quasi meccaniche per
l’effetto a scatti che l’occhio percepiva. Si ponevano come antefatto, in ogni scena,
pochi attimi di silenzio e d’immobilità per poi scaturire in un guizzo di
pura azione, fisica e senza dialoghi, solo un impattante sottofondo musicale
calcava la drammaticità di quel momento. Il regista metteva luci saturanti su vestiti
e sfondi, un bianco e nero fatto di contrasti ben lontani dall’ovattato mood
in stile Hollywood. Entrarono in gioco nuovi elementi fino
all’ora intoccabili e impronunciabili, come droga, violenza fisica e sesso.
La slealtà dei malviventi era camaleontica, i loro crimini più sfumati ma
altrettanto feroci. Cambiavano sempre più i personaggi a
contorno: bambini e donne erano le nuove vittime quanto un poliziotto o un
occasionale passante. In particolare, le donne non vivevano più il crimine
nella sua dimensione psicotica e cerebrale ma erano prese in ostaggio,
picchiate, umiliate. In Bullitt, il regista Peter Yates evita,
con astuta ingenuità, di introdurre droga – sesso – violenza di genere e sui
bambini; è figlio di un cinema Blockbuster e saprà ben evitare tutto ciò per
riempire le sale di stuoli di famiglie. A Don Siegel
allora, se non quindi, il merito di essere stato audace in un cinema che per
il 1958 era quasi al limite della censura. Don Siegel gira il
suo film in una San Francisco in piena evoluzione urbana, inquadra il suo
ponte e la baia, utilizza la nuova super strada che porta da una sponda
all’altra della costa, le grandi strade in pendenza offrono nuove prospettive
di ripresa. Yates, con Bullitt, non dovrà fare altro che ritornare sugli
stessi identici luoghi. Cambierà solo il punto di ripresa, dal basso verso
l’alto ma la formula resterà la stessa.
Raro
trailer del film Lineup. Da
“Il caso Thomas Crown” a “Bullitt” Se nelle riprese del film “Il caso Thomas
Crown” Steve McQueen era riuscito a cucirsi addosso uno standard di “King of
cool”, fatto di un mix di menefreghismo – spocchia – silenzi e sguardi
profondi, con “Bullitt” la maschera non funzionò come previsto. Qualsiasi spettatore, dal 1968 ad oggi, ha
immaginato l’attore aggirarsi sul set con aria quasi assente e pronto a darsi
una mossa solo se c’era da correre in auto o sotto la pancia di un jet. Non
andò così. McQueen si aggirava sì sul set ma con un
megafono in mano, a dare ordini a tutti compreso allo stesso Yates che con
proverbiale pazienza cercava di assecondare “l’enfant” del nuovo cinema
d’azione. Yates sapeva che la sceneggiatura non era un
gran ché e che a milioni di Americani non gliene poteva fregare molto se
qualcuno spifferava gli affari loschi della mafia italoamericana; loro
volevano vedere il King of cool dare quei fendenti a base di sguardi glaciali
e sgommate per le strade di “Frisco”. Ci voleva insomma il tocco di Stevie, e
Yates lo lasciava fare. La star di Hollywood aveva mandato giù il
boccone amaro buttato lì da alcuni critici dopo l’uscita de “Il Caso Thomas
Crown”, sapeva di non essere quel genere di attore capace di vestire
qualsiasi ruolo. Lui ne aveva tre o quattro cuciti addosso, il resto lo
doveva tirare fuori dalla sua emotività e dalla sua grinta di ragazzo
cresciuto nella miseria quotidiana. L’attore Don Gordon, sua spalla in molti
film e amico quasi unico nella tormentata esistenza da star, ricorda che
sulla sceneggiatura di Bullitt erano all’ordine del giorno i tagli ai
dialoghi. Meno chiacchiere e più azione, così amava lavorare McQueen. Per la scena dell’inseguimento lungo le vie
della città, McQueen provò per ore in una piccola pista su asfalto mettendo
alla frusta la sua Mustang verde scuro (colore
esatto: Highland green). Le scene
dell’inseguimento furono lo stesso pericolose e i segni sulla carrozzeria
della vettura dimostravano che, in qualche passaggio, l’attore aveva
rischiato di finire all’ospedale. Come era nel copione della sua vita, le
scene all’aeroporto, quando passa sotto la pancia di un Boeing 707, furono
momenti di adrenalina pura, nessuno stuntman o scena artefatta. Yates sudava
freddo, sul seggiolino da regista, alzandosi solo dopo lo “Stop!” per andare
a stringere la mano a quel pazzo di protagonista. Per i più curiosi delle auto del film: per
la serie televisiva “Hazzard”, il Generale Lee fu
realizzato con un modello identico di Dodge Charger
dipinto però in un bel color carota e con sul tetto una bandiera degli Stati
confederati del sud. Sull’inseguimento tra la Mustang e la Dodge Charger (era
guidata dallo stuntman “Wild Bill” Hickman), si
sono scritti interi tomi, dove poi verità e fantasia narrativa si perdono
ancora oggi. Il percorso dell’inseguimento fu totalmente
inventato e sfruttò pluri passaggi dove si nota il Maggiolone di scena
guidato da Carrie Lofton. Appare anche una involontaria comparsa
italiana: una Alfa Romeo Montreal bianca. Le botte sulle fiancate, di ambo le auto
utilizzate nell’inseguimento, furono in parte causate durante i passaggi di
prova, che imposero allo staff del film di portare sulla scena diverse auto
inutilizzabili e di risarcire casuali incidenti non previsti. Impressionante il numero di coprimozzi persi
dalle due vetture che si inseguivano e che, per magia, apparivano nuovamente
montati sulle vetture nella scena successiva. Steve McQueen guidò in tutte le scene tranne
in quella prevista con la Mustang che faceva “un saltello” dalla ripidissima Chestnut Street, per l’occasione al volante c’era Bud Ekins su preghiera
disperata della moglie di McQueen, Neile Adams. Il tocco finale al film furono le musiche
scritte e composte da Lalo Schifrin.
Un tripudio di fiati che nella discontinuità dei vari brani, tranne il main title e l’end title, assume il suono onomatopeico dei motori e delle
espressioni mute dell’attore (nessuno dei brani infatti è cantato).
Uno
dei diversi trailer del film Bullitt Se era stato bastonato dalla critica, per la
sua recitazione in “Il caso Thomas Crown”, in Bullitt mise tutti al tappeto
con quella scena finale dove lui si guarda nello specchio. Il viso stanco,
non truccato e la sfingea quanto solitaria scena finale strapparono dalle
poltrone delle sale, in un applauso orgiastico, il pubblico di tutto il
mondo. McQueen lavorò duramente a costruire Frank
Bullitt come fotocopia di quel McQueen che quando era in silenzio era in
grado di controllare tutto e tutti. Lo vestì di una forte umanità che non solo
nella scena finale è evidente più per dettagli che per l’insieme. Bullitt che beve il latte, che ha freddo
appena uscito dalle coltri in tarda mattina, che non ha gli spiccioli per il
giornale e forza la cassettina automatica. Era un eroe umano, quindi piaceva a tutti. Seppe essere il King of cool ma con tutti
gli addobbi dell’uomo medio, insofferente alle regole e alla vita
convenzionale di coppia, desideroso di qualcosa difficile da far capire agli
altri. In giacca e cravatta oppure in lupetto nero
e giacca di lana; un vero assortimento di capi che tutti potevano avere
nell’armadio di casa, lui era ogni uomo sulla Terra. Come il tenente Guthrie,
Bullitt seguiva gli indizi standogli in coda e non per intuizione alla
Sherlock Holmes. Quell’inseguimento in auto è forse la metafora più azzeccata
mai vista nel cinema americano d’azione: come Bullitt non precede mai gli
indizi, così nell’inseguimento resta perennemente in coda ai due killer di Ross. Il film è stracolmo di metafore del
personaggio McQueen: i criminali sono tutti algidi e i loro dialoghi piatti e
monotonali, così la presenza della non identificabile compagna di Bullitt la
cui vera entità non sarà sciolta nel film. Eppure sono tutte metafore che
riassumono l’attore, la sua maniacalità per il distacco e l’assenza
razionale, la sua incontrollabile fisicità in ogni aspetto della sua vita. Il film incassò cifre enormi per quel tempo:
oltre 24 milioni ai botteghini contro i 5 milioni di dollari per la
produzione. Nacque un nuovo genere di film d’azione con
pochi dialoghi, pochi interni, molta fisicità e immediatezza a quintali. Film come “Il braccio violento della legge”
sono proprio il frutto dal personaggio di Bullitt e Gene Hackman ne fu
discepolo, le facce tese di Robert De Niro in “Heat”
o “Ronin” nascono senza ombra di dubbio dai primi
piani di McQueen. L’attore iniziò a metabolizzare così tanto
successo, dopo l’uscita del film, al punto di intrecciare le due figure,
portando il suo stile di vita ad essere la fusione di McQueen + Bullit. Come spesso ricordò la sua prima moglie Neile: Steve era troppo già di suo, aggiungendoci Bullitt
fu l’apocalisse.
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